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ARANCIONE, COME SE FOSSE QUESTO IL GRANDE AMORE

Avete presente quando cercate di portare alla memoria il primo ricordo dell’infanzia, la prima cosa che davvero avete coscienza di aver fatto ? È difficile e il più delle volte sono solo flash, sprazzi di immagini. Per me è così. Non ho più una immagine chiara e definita dell’inizio, di quando sono entrata per la prima volta dalla porta della sede e ho iniziato ad essere una volontaria. Ricordo però le sensazioni e la felicità provata da quando vesto arancione, come se fosse questo il grande amore.
Ho visto le persone più disparate avvicinarsi alla Croce Bianca. Alcuni vanno spronati, altri hanno bisogno di una buona dose di umiltà da raccogliere sul campo, ma poi all’improvviso sono pronti ad agire.

Chiunque indossi la nostra divisa, anche solo per poco, capisce subito che tutte le persone che soccorrono entrano nel loro cuore. Si crea un legame speciale e le dialisi del sabato sera diventano un appuntamento per parlare di calcio con gli anziani e i giovani che accompagnamo a casa dopo la terapia non sono più un mondo a parte, ma parte del nostro mondo.
Le persone che aiutiamo durante le emergenze si trovano in uno dei momenti più delicati e fragili della loro vita e cercano qualcuno che li protegga dal loro dolore. Qualcuno che gli faccia scudo dalle sofferenze e in quel momento dobbiamo essere noi la risposta: dobbiamo farci avanti, essere a loro disposizione con la comprensione e la delicatezza di cui siamo capaci.
Quante persone durante il servizio ci guardano con curiosità: siamo “quelli che accendono le sirene nel traffico“, “quelli che corrono con l’ambulanza”, “quelli che portano i giocatori fuori dal campo con la lettiga”.

Qualcuno ci chiede perfino “perché lo fai?”, ”Ma ti pagano?”, “Ma che ci guadagni?”. Quando rispondi “sono solo una volontaria“ provano a cercare un altro motivo:” ma sei infermiera? Studi medicina?”. E ancora spieghi che sei una persona normale, con nessuna speciale qualifica, ma con una preparazione specifica per fare soccorso. Allora si zittiscono per un attimo e ti dicono: “È bello quello che fate!” e io vorrei dire: “Non sapete quanto!”.
Non sapete come ci sentiamo noi, con quella divisa addosso, che ci fa sudare in piena estate, che stiamo sotto la pioggia e la neve a vigilare sui bambini che giocano a calcetto. Non sapete quanto siamo uniti, quanto viviamo per la nostra sede, quanto lottiamo per la comunità affinché la gente continui ad avere noi al loro fianco nonostante i tagli alla sanità. Non sapete che litighiamo, mettiamo il broncio e ci siamo persino antipatici, come in una vera famiglia. Non sapete niente di noi ma quando le nostre strade si uniscono e ci confidate le vostre paure siamo lì per voi, spesso senza che sappiate neppure il nostro nome e a noi non importa perché non vogliamo altro che fare il nostro dovere.

Quando torno a casa la sera e racconto ai miei la mia giornata non parlo di ferite e traumi ma di persone, delle loro parole, dei loro sguardi, delle loro storie. Capita di consolare un bambino con un guanto gonfiato come un palloncino, di convincere un ragazzo che ha distrutto il motorino a chiamare i genitori per tranquillizzarli, succede di tollerare un uomo grande e grosso che strilla come un bimbino per una colica renale. 

Sembra quasi routine, ma ogni persona è una storia diversa e sta a noi capire con quali parole e gesti farli sentire meglio mentre sono su una barella, esposti e vulnerabili.
Poi ci sono episodi che non dimentichi in cui ti rendi conto che la tua presenza forse ha fatto la differenza.
Un turno come un altro, anzi una bella giornata di sole e arriva una chiamata per un intervento in centro; ci accoglie un signore anziano con gli occhi sbarrati , mi afferra la mano e mi trascina in camera dove c’era la moglie a letto dicendomi “Non mi risponde più”. Non ricordo i dettagli dell’intervento, dopo aver preso i parametri e chiamato l’automedica in supporto, abbiamo preparato la paziente al trasporto. Ricordo solo che lui non mi ha mai lasciato la mano mentre i miei colleghi si occupavano della moglie, era in silenzio accanto a me che gli spiegavo quello che il dottore diceva e che lui non riusciva a capire. Prima di salire in ambulanza dovevo necessariamente lasciargli la mano e lui mi chiese “Ma la riporterete a casa da me?”. Non sapevo cosa rispondere e non sapevo quale verità avrebbe potuto sopportare. Così l’ho guardato negli occhi e gli ho stretto forte la mano senza parlare, sono salita accanto a sua moglie e le ho preso la mano stringendola forte come avevo fatto con lui . L’ho sentito sussurrare grazie e lo sportello si è chiuso. Ancora non so come ho tenuto le mani ferme e soprattutto le lacrime. Ma era necessario perché il mio turno non era ancora finito…

Michelle, volontaria Croce Bianca Teramo

Fonte: www.anpas.org


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